“Lasciarsi ‘graffiare’ dall’altro”: i campi estivi per giovani dei missionari scalabriniani
“Di fronte a uomini con i piedi in cancrena dal freddo, a famiglie con bambini allo spando nei boschi minati della Bosnia, a giovani morsi dei cani delle forze d’ordine croate, non possiamo restare indifferenti, dobbiamo essere responsabili per l’altro”. Padre Jonas Donassollo ha 38 anni, viene dal sud del Brasile ed è un missionario scalabriniano della Congregazione di San Carlo Borromeo. Vive la sua vocazione insieme ai giovani e ai migranti. “All’età di 15 anni sono entrato in seminario: all’inizio ero attratto dal rapporto che i missionari avevano con Gesù. In un secondo momento, ho conosciuto il loro carisma e ho capito che poteva essere la strada attraverso cui Dio mi chiamava a seguirlo: servire il popolo migrante con gli scalabriniani”.
Nella storia della sua famiglia l’emigrazione ha sempre fatto parte: “I miei bisnonni sono nati in Veneto e in Trentino. Sono emigrati in Brasile alla fine dell’’‘800. Questa identità ibrida fa parte di me, mi ha plasmato. Capisco che è una ricchezza e a volte anche una difficoltà. Per questo oggi aiutiamo anche le seconde generazioni, ragazzi nati in Italia da genitori stranieri”.
Dal 2015 padre Jonas trascorre le estati organizzando con l’Agenzia Scalabriniana per la Cooperazione allo Sviluppo dei campi nei luoghi più significativi dell’immigrazione in Europa. Il progetto, dal titolo “Attraverso”, è nato nei primi anni ’90 con l’obiettivo di far entrare in contatto giovani e migranti, promuovendo l’incontro con le altre culture. Da luglio a settembre, i ragazzi, insieme ai responsabili scalabriniani, sono al servizio delle persone in movimento lungo le frontiere e a fianco dei lavoratori stagionali nelle campagne. Questa estate i campi si sono svolti a Ventimiglia (IM), Oulx (TO) e Trieste per parlare di confini italiani ed europei; a Sabaudia (LT), Cuneo e Foggia per sensibilizzare sulla realtà del caporalato e a Cosenza con le seconde generazioni.
Sentirsi responsabile dell’altro e per l’altro
“Ci sono momenti di formazione, condivisione e servizio: questi sono gli ingredienti semplici del nostro campo. Facciamo lavorare i ragazzi che sanno che qui si devono mettere in gioco”, continua padre Jonas. “Vogliamo che il giovane sia graffiato, che resti un piccolo o grande graffio nel suo cuore, che custodisca per tutta la vita la bellezza di questa esperienza e il senso di responsabilità, ovvero il sentirsi responsabile dell’altro e per l’altro. Cerchiamo di sensibilizzare i ragazzi affinché agiscano concretamente là dove vivono e facciano la differenza”.
Il primo campo di Jonas è stato in Puglia tra i braccianti stagionali che lavorano nei campi. Anche lui si è lasciato ‘graffiare’ dal dolore dell’altro. “Ogni anno a Borgo Mezzanone incontro Asim, viene dal Togo, vive in una baracca e parla pochissimo. Eppure, tra di noi c’è grande stima e fiducia. Quello che mi colpisce di lui è la cura nei confronti dei volontari. Noi andiamo lì ad insegnare italiano in un piccolo bar vicino la chiesa. Ogni pomeriggio lui viene, sistema le sedie, pulisce. Ha cura e attenzione verso gli altri”.
Ascoltare il dolore e far emergere il valore del fratello
Nel 2019 con il progetto “Umanità ininterrotta”, missionari e giovani sono partiti dalla Siria per arrivare in Italia seguendo la rotta dei migranti. “Quest’anno abbiamo portato a Trieste cento volontari. Siamo di supporto alla società civile che accoglie le persone in transito: prepariamo gli zainetti, distribuiamo i pasti e cerchiamo di portare un po’ di conforto a chi continuerà il suo cammino. Di fronte alla sofferenza siamo tentanti di scappare perché il dolore dell’altro, di qualunque natura sia, rimanda al nostro dolore, alle ferite che ognuno di noi ci portiamo dentro. Il primo passo è dare voce al mio di dolore, alla mia ferita. Poi il secondo passo è l’empatia, ascoltare la fatica dell’altro. Certo, di fronte a Mohamed, bastonato dalle forze d’ordine croate, arrivato con i piedi in cancrena a Trieste, è difficile, ma non dobbiamo perdere di vista la vita che vibra dentro ognuno: mentre gli vengono curati i piedi dai volontari nella piazza di Trieste, Mohamed pensa alla meta che vuole raggiungere, alla sua famiglia in Francia. Cerco di connettermi con questo aspetto della persona, con i suoi sogni, con le sue potenzialità, i suoi doni. Il dolore e l’ingiustizia alimentano il mio impegno, affinché ogni persona migrante possa esprimere il proprio valore in un mondo più libero e giusto. Provo a reagire in questo modo alle varie situazioni che mi trovo davanti”.
Combattere per i diritti di tutti
Quest’anno al campo estivo a Sabaudia ha partecipato anche Gurpreet Singh, un ragazzo indiano che per undici anni è stato un bracciante agricolo. “Quando sono arrivato in Italia avevo quasi 18 anni, mio padre viveva già in provincia di Latina e aveva perso il lavoro”, racconta Gurpreet. “Ho conosciuto un capo indiano e ho iniziato così il mio lavoro nei campi e nei vivai. I datori di lavoro italiani scelgono una persona e la pagano il doppio di un semplice bracciate. Mi davano 4 euro all’ora e lavoravo dalle 8 di mattina fino alle 21 di sera, tutti i giorni, solo la domenica per mezza giornata. I capi indiani cercavano di mettermi paura per lavorare più veloce. Ci facevano un contratto grigio: versano i contributi solo per dieci giornate al mese. Questo significa che metà dei soldi erano pagati in nero e metà con la busta paga. Le rare volte che c’erano dei controlli, ci minacciavano per non parlare”. Oggi Gurpreet lavora come mediatore culturale. “Ho conosciuto i missionari scalabriniani e ho iniziato a collaborare con loro e con la comunità sikh. Questi campi estivi sono importanti perché permettono ai ragazzi di vedere con i propri occhi come vivono i braccianti agricoli, come sono sfruttati. Dobbiamo lottare tutti insieme per i loro diritti”.
Il carisma scalabriniano guarda al futuro
I campi degli scalabriniani hanno cambiato la vita a tanti giovani, come testimonia padre Jonas. “Ogni anno incontriamo più di 200 ragazzi. Mi commuovo a pensare ai miracoli a chi ho assistito: ho visto persone cambiare mentalità e sensibilità, scegliere altri percorsi di studi, diventare volontari nelle Caritas, in parrocchia o impegnarsi per promuovere l’accoglienza. Vedo il diffondersi della cultura dell’incontro”.
Sara Meneghini ha 23 anni e ha partecipato al suo primo campo estivo quando ne aveva 17 di anni. Oggi lavora per l’Agenzia Scalabriniana e ha deciso di restituire quello che ha ricevuto: “L’estate è il tempo del divertimento, eppure molti ragazzi scelgono di fare una settimana di questo tipo perché sentono che è un’occasione speciale per fare del proprio tempo qualcosa che dà frutto e per mettersi in gioco. Si torna a casa con lo stile di vita scalabriniano che è quello di non rimanere indifferenti agli altri”.
Nelle loro attività a servizio dei migranti, i missionari scalabriniani cercano di cambiare la realtà partendo proprio dalle nuove generazioni, come continua a raccontare padre Jonas: “Non sono immune al dolore, vivo le storie delle persone che incontro e le sento dentro. I migranti sono una umanità in cammino, sofferente, affaticata e carica di vita. A volte mi sono chiesto: “Stiamo toccando la radice del problema? Cos’altro possiamo fare? Ne vale la pena?”. Poi mi sono detto: “Sì, continuiamo a lavorare nel migliore dei modi possibili, come ci ha insegnato il Santo Scalabrini che aveva un cuore di pastore e si prendeva cura delle persone a lui affidate. Sensibilizziamo i giovani che domani avranno il potere politico di migliorare le leggi e di incidere sui meccanismi che producono tante discriminazioni e sofferenze”.