Intervista a suor Neusa de Fatima Mariano
“Abbiamo ricevuto un’eredità dal Santo Scalabrini: un carisma per il nostro tempo”, suor Neusa de Fatima Mariano, superiora della Congregazione delle Suore Missionarie di San Carlo Borromeo Scalabriniane racconta come, ad oltre un secolo dalla morte di Giovanni Battista Scalabrini, la sua vita è ancora un faro per chi nel mondo è al servizio dell’umanità più sofferente: quella migrante. Dopo aver fondato nel 1887 i Missionari di San Carlo Borromeo, il Vescovo di Piacenza sapeva che: “La loro opera era incompleta, specialmente nel Sud America, senza l’aiuto delle Suore”. Sostenuto dalla beata Assunta Marchetti e dal servo di Dio padre Giuseppe Marchetti, nel 1895 dà vita alla Congregazione delle Suore Missionarie di San Carlo Borromeo, riconoscendo il grande valore che le donne consacrate potevano portare al suo progetto missionario nel mondo.
“Siamo l’espressione del volto femminile del carisma scalabriniano rivolto ai migranti”, afferma suor Neusa. “Abbiamo una sensibilità particolare, sentiamo e capiamo tutti i disagi che una donna può vivere nel viaggio migratorio, viaggio che rende le donne e i bambini più fragili e vulnerabili”.
Perché ha deciso di diventare una suora missionaria scalabriniana?
Sono nata in Brasile e ho lavorato per molti anni con i bambini e i ragazzi, nella formazione cristiana, ero catechista nella mia parrocchia e appartenevo ai gruppi giovanili, ma c’era nel mio cuore il desiderio di fare qualcosa di più grande e di consegnare tutta la mia vita al servizio di Dio. Ho fatto delle ricerche sulle congregazioni presenti nella zona di San Paolo e mi hanno colpito molto le suore scalabriniane. Le ho incontrate ed erano veramente felici e accoglienti. Ho sentito che quello era il luogo dove il Signore mi chiamava. In seguito, ho conosciuto la spiritualità di Scalabrini, la sua capacità di vedere nel migrante il Signore e di lavorare per il loro bene. Sono diventata così una suora scalabriniana a 21 anni.
Una delle mie prime missioni è stata nelle periferie di San Paolo, nelle favelas. Incontravamo i migranti e mi sorprendeva la loro speranza, il loro coraggio e la fiducia che avevano nel Signore, in vista di una vita migliore. Aprivano le loro case e nella semplicità offrivano quello che avevano, nonostante la loro situazione di povertà. Ci raccontavano la loro storia, le sofferenze vissute nel percorso della migrazione. Nel mio essere suora scalabriniana è sempre stato importante fare il primo passo verso l’altro, ascoltarlo, entrare in comunione profonda con la loro realtà; gioivo quando vedevo che le persone uscivano dal loro isolamento, dalla loro tristezza.
Come portate avanti il carisma scalabriniano nel mondo?
Siamo presenti in 27 Paesi con oltre 100 missioni animate dalla spiritualità di Scalabrini, che è vivere la comunione nella diversità. Noi vediamo in ogni persona un figlio di Dio e cerchiamo di vivere il mistero dell’Incarnazione nelle varie realtà della migrazione. La nostra scelta è quella di rivolgerci in modo particolare alle donne e ai bambini rifugiati, essere migranti con i migranti, compagne nel loro cammino. A Roma abbiamo aperto una casa di accoglienza per donne migranti e rifugiate e per i loro bambini, si chiama Chaire Gynai, che in greco significa ‘Benvenuta, donna’. Una di loro mi ha abbracciato e piangendo mi ha detto: “Grazie per quello che state facendo per noi. Questo progetto mi ha salvato”. Nell’abbraccio di questa mamma, ho sentito lo scopo della nostra missione: offriamo loro la possibilità di una vita che riconosca la loro dignità e apra strade verso nuove opportunità. Il carisma scalabriniano nel mondo è testimoniato attraverso le azioni socio- pastorali, si manifesta nella solidarietà con chi vive il dramma della migrazione, tutto mira a creare comunione, essere con, per e tra i migranti e i rifugiati sorelle.
In questi ultimi anni abbiamo creato un progetto specifico della Congregazione: il “Servizio Itinerante”, presente nei luoghi di frontiera, dove c’è più sofferenza: a Roraima in Brasile, nel confine settentrionale e meridionale del Messico, a Ventimiglia in Italia e a Pemba in Mozambico. Con questa specifica azione, la Congregazione offre il suo contributo, affinché ai migranti e ai rifugiati, soprattutto donne e bambini, in situazioni di emergenza e in condizioni di vulnerabilità, sia garantito il rispetto della loro dignità, l’attenzione ai loro bisogni primari e l’accesso alle opportunità di promozione umana.
C’è spesso molto diffidenza e chiusura nei confronti di chi è costretto ad emigrare. La vostra missione, invece, si basa sulla relazione e l’accoglienza dell’altro.
La migrazione arriva e porta con sé dei cambiamenti strutturali: accogliere i migranti è avere questa capacità di ascolto. Aprirsi all’altro implica condividere il nostro spazio, le nostre città, ma anche saper valorizzare la bellezza che ognuno porta in sé. Entrare in relazione con i migranti significa anche sapersi commuovere davanti al dolore, così come ha fatto Scalabrini vedendo gli emigranti italiani partire verso l’America. Noi donne siamo molto più sensibili alla sofferenza degli altri. A partire dal nostro modo di essere donna, cerchiamo di far rifiorire la creatività scalabriniana con i migranti e i rifugiati che non trovano risposte alle loro problematiche, alle loro ferite e cerchiamo di accompagnarli nel loro cammino come fa Gesù, il buon samaritano. Quando ci sono situazioni che non possiamo risolvere, ciò che è: “Noi ci siamo, restiamo con voi, potete contare su di noi”. Il dolore dei migranti diventa anche il nostro dolore, così pure anche la loro speranza è la nostra speranza. Questo ci ha insegnato Scalabrini.
Papa Francesco il 9 ottobre proclamerà Santo Giovanni Battista Scalabrini. Qual è la straordinarietà di questo uomo semplice, un Vescovo dal cuore di padre?
Scalabrini era innamorato del mistero dell’Incarnazione di Dio: contemplava continuamente il Figlio di Dio che si fa uomo per rivelare l’amore del Padre e per riconsegnare a Lui l’umanità rinnovata. Era un uomo tutto di Dio e per Dio. Ha fatto tesoro della cultura dei migranti, della ricchezza che portavano con sé, al punto di dire: “Nel migrante io vedo il Signore”. Abbiamo ricevuto questa eredità, un carisma per il tempo di oggi. Quando leggiamo i suoi scritti, ci accorgiamo che sono ancora attuali. Era anche un uomo d’azione: ha saputo coinvolgere la Chiesa, lo Stato, i laici, i missionari, noi suore scalabriniane affinché tutti potessero fare la loro parte. È bello che la sua canonizzazione arrivi in questo tempo forte di migrazioni. È un segno importante che il Papa vuole dare a tutta la Chiesa e a tutta l’umanità, una chiesa che accoglie e cammina con i migranti e i rifugiati.